Il bambino e la famiglia


A scuola ci insegnarono che il bambino non può essere considerato un paziente “singolo” ma che è sempre da “trattare” insieme alla sua famiglia. Quando mi capita di essere chiamata per soccorrere gli adolescenti “psichiatrici” questo ricordo scolastico torna prepotentemente a galla. Quanto c’è di patologia della famiglia e quanto di disagio psichiatrico vero e proprio in questi ragazzi? Una quattordicenne che la sera fa tardi con gli amici, che vive appiccicata al telefono, al computer, alla tv, è un’adolescente “difficile” o una paziente psichiatrica? Se fa le 4 fra amici e cellulare e poi dorme fino alle cinque del pomeriggio dopo, dobbiamo ipotizzare un’inversione del ritmo sonno-veglia o il normale recupero dopo una notte insonne? Vale la pena di entrare nel circuito dei servizi di diagnosi e cura (e rischiare lo stigma) per poter delegare alla medicina ciò che la famiglia non riesce a fare? A quattordici anni chi deve decidere gli orari e gli impegni, l’adolescente o i genitori? E se i genitori sono separati può il non affidatario tirarsi fuori dalle decisioni a riguardo? Chi sono per giudicare tutto ciò? Sono solo un’infermiera, ma sulla mia ambulanza una paziente di questo genere ci sale solo se lo decide lei, non è nei miei compiti nè nella mia etica professionale forzarla. Vale comunque la pena convincerla, se non altro perché la madre prima di lei deve farsi vedere da qualcuno, ma non sono neanche convinta che questo qualcuno sia il medico, lo psichiatra. Con A. Sono stati Francesco e Bernardo, autista e barelliere la cui umanità va aldilà del ruolo di semplici “tecnici” dell’assistenza a riuscire a convincerla di venire in ospedale, mentre io parlavo con sua madre. Famiglia+bambino: inscindibili. Avevano ragione a scuola infermieri.

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